a volte si perde il filo degli addii. si è convinti di tornare e intanto si smantella questo mondo e quell'altro. si confondono le tracce delle fughe. come quella clemente giornata lenta. giusto il tempo di riempirsi gli occhi, di sbrogliare gli intrighi delle strade, di mandare a memoria il caldo, l'odore e i passi. traslocare dalla casa che in realtà casa non è. vaporizzare le intenzioni lungo la strada fra il danubio e la stazione. e come faccio a non pensare a quando ho corso con entrambe le mie gambe? come una pazza, smadonnando contro i tram e i santi ortodossi. ho corso come ho potuto. credevo di star correndo il rischio. i baci al binario quattro. e non ho fatto altro che inventare le cose che non ho afferrato. spiando invece di guardare. racconto le favole e ci prendo gusto. tipo c'era una volta una serenata muta, sotto la finestra. e gli occhi che hanno sempre detto più del dovuto. c'era l'empatia da divano, la complicità da panetteria e il senso d'appartenenza da bar. c'era il mio culo all'aria sul lungomare. c'erano le stelle e mi sentivo al sicuro. c'era la certezza di non essere soli e la possibilità di essere capiti. c'era una volta qualcosa di nostro, di insieme, di bello. la paura lanciata nel crepaccio come la strega cattiva e i recettori impazziti. c'era un passo e poi ce n'era un altro, a gruppi di quattro piedi. il tempo per rinchiudersi e quello per guardarsi. il tempo passava e noi che eravamo ancora lì. il coraggio delle domande e la pazzia delle risposte. il carrello della spesa e la piena delle ossessioni. i desideri illegittimi e i pensieri lascivi. c'erano i confini polverizzati dell'incontro naturale di due libertà. c'era tutto e niente insieme, il silenzio e le campane a festa. c'erano le cose che tornavano ciascuna al proprio posto fra la protezione e l'istinto. c'era il trovarsi e le capriole nei cunicoli. mi pare lo chiamino amore che non ha paura. racconto fino a che non mi addormento. come tutte le persone internamente disperse, come i profughi senza asilo.