credo sia per il treno lento che raddoppia le distanze. non che lo faccia per negligenza. anzi: è che se nasce un confine nuovo, l'orario resta quello. la gente è abituata, come quando c'era lui. non c'è motivo per cambiare alcunchè. si ferma nel nulla, riparte che sembra abbia fretta, rallenta, sbuffa e  fischia come dice lui. così come facciamo noi. se ne fotte dell'europa: ci mette sempre lo stesso tempo. passaporti, mani appiccicate, niente da dichiarare. aspetta l'alba a zagabria, che decolla quando le parole non servono più. quando crolliamo sudati gocciolando questo nostro piacere nuovo. come hai detto che mi chiamo? dove sono? siamo ancora a zagabria, naturalmente. fame, risate, uova sode. la pianura rimbomba e non finisce mai. mai: non ho mai guardato negli occhi un uomo che fa l'amore con me. che si addormenta nel cielo azzurropolvere dei balcani, riconoscibile fra mille cieli, sempre uguale come il treno, come tutto il resto. il velluto azzurro, il plaid e le pantofole gentilmente offerte dalle gloriose ferrovie exjugoslave, exfederali, exserbomontenegrine, per il momento serbe. buon viaggio, buon sonno. mancano dieci minuti, i più balkan. il treno a passo d'uomo lungo il fiume, sui ponti di dissimulata solidità, fra le discariche e le tragiche baracche con la parabolica più grande della porta. ma senza acqua corrente. tanto c'è il danubio, il bel danubio gialloverdognolo che trascina lentamente qui la merda di tutta eropa. 12.48: l'orario che è sempre lo stesso. sole e odore di strutto nell'aria pesante. БЕОГРАД. valigie? no grazie. semini di girasole? no grazie. uno sguardo di soppiatto alla banchina, all'orologio e ai pulcini di un anno fa. se avessi fatto ciò che mi scappava dai pensieri, se l'avessi detto mentre roteavo fra le uniche braccia che possono stringere quanto vogliono. saremmo qui per un tributo, più che per appropriarci finalmente di ciò che è nostro. e non mi sarei sommossa così profondamente.