s-catenare i pensieri e lanciarli dritti davanti a sé, il più in aggetto possibile. è solo un altro dei rumori che mi fanno impazzire. lo chiamavamo decolonizzazione dell'immaginario, bevendo mate attorno al tavolino basso. c'è da far saltare il sistema di valori e di censure di ometti benestanti e trafficoni che non hanno il coraggio di farsi schiantare il cuore. provarci, almeno. perchè non è facile per niente: non basta pensare a non imprigionarsi in quest’etica vigliacca ma condivisa (e già sarebbe qualcosa) e non basta non sbagliare niente, non lasciarsi paralizzare. bisogna fare i terroristi, far detonare crostificazioni così artefatte da sembrare naturali. ci sono cumuli così congeniti e solidi che per assaggiarci bisogna trivellare in profondità per chilometri. fa male, persino con il nonsense. e non finisce: ci vogliono la forza e il coraggio di far sgorgare il magma, di farselo scorrere al posto del sangue. e di annaffiarcisi, a tutti gli strati. per non parlare  di quanto sia difficile riconoscersi al solo odore, quanto laborioso poi scassinare la porta che ci divide in due, uno dall’altro lato e l'altro da un altro ancora. un lavoraccio. che cazzo di fine fa l'incontro che genera finalmente qualcosa che sia vivo? non la solita coppia-comoda-accogliente, strutturata, asfissiante, frontale, quotidiana di corto respiro che mi fa sorridere e mi fa pena. da sempre. non è un cazzo di rifugio l’amore, non una fuga, non una sfida, nè l’ulteriore staccionata che separa il mio orto da quello, più verde, del vicino. no, non può esserlo. mai. avevo solo chiesto di fluidificare le mie aspirazioni, oltre che le mie fantasie più temerarie. e poi il possesso non c'entra niente: l'appartenenza è un'altra cosa.